Dal nostro inviato GILBERTO SCALABRINI

Palazzo d’Assisi  (Pg), 20 giugno 2024 – Lo incontriamo nella stalla, con le scarpe coperte di terra e il forcone in mano, intento a rifornire di foraggio la greppia. Marzino Famiani, con un sorriso cordiale e sincero, si affretta a spiegare che il lavoro lo accompagna da sempre e che stare in ozio lo farebbe sentire più vecchio dei suoi 88 anni.

Marzino è un contadino e ortolano di lunga data. Ogni mattina, ancora oggi, si alza alle sei per accudire due vitelli e tre mucche nella stalla. Anche sua moglie, Argentina Fioriti, classe 1938, è sempre attiva sui campi, lavorando la grande distesa della campagna che produce frutti preziosi.

Alle sette di sera è ancora con il falcetto in mano, intenta a raccogliere erba per i conigli. La nipote Martina, figlia di Gabriella, la richiama ad alta voce: «Nonna, basta lavorare…». E lei di rimando: «Questa non è fatica e poi non sono stanca…».

Con le schiene curve dal lavoro nei campi, Marzino e Argentina non hanno affatto intenzione di fermarsi. Il loro spirito dimostra che la longevità è inversamente proporzionale al benessere. Sposati da 66 anni, hanno celebrato le nozze il 9 marzo 1958, giorno del compleanno di Marzino.

I loro ricordi sono vividi, come pagine di un diario. Figli di poveri contadini, ricordano con affetto il giorno del loro “sì”.

«Il nostro viaggio di nozze – rammenta Marzino sorridendo – fu una passeggiata dalla chiesa alla cascina, lungo le strade di campagna. A quei tempi non potevamo permetterci lussi e Argentina non aveva l’abito bianco. Ogni soldo era prezioso e serviva per tirare avanti».

Hanno avuto tre figli, che a loro volta hanno dato loro cinque nipoti.

«Quelle poche lire al mese erano la nostra provvidenza. Oltre a lavorare nei campi, facevo anche il muratore. Mi alzavo alle quattro del mattino, quando era ancora buio, mungevo la mucca, poi caricavo il contenitore di alluminio sul somaro e andavo a vendere il latte nelle case. Lo vendevo a 70 lire al litro. Alle sette e mezzo ero già in cantiere a lavorare come muratore. Mai un ritardo.

Riguardo alla sua proverbiale puntualità sul lavoro, ci racconta un episodio memorabile: «Un giorno dovevo portare la mia scrofa (sì, la femmina del maiale!) a Ponte San Vetturino, dove l’attendeva il verro (il maschio destinato alla riproduzione). Con non poca fatica, riuscii a sistemarla sul carro trainato dal mio fidato somaro. Ma durante il tragitto, il somaro scivolò e la scrofa, colta dall’occasione, fuggì via come un fulmine. Dopo aver messo al sicuro il somaro, che si era ferito, mi lanciai in una corsa sfrenata attraverso i campi per riprendere l’animale in fuga. Nonostante questa rocambolesca disavventura, riuscii comunque ad arrivare puntuale al cantiere!».

«Dal lavoro tornavo a casa per la pausa pranzo. Prima di ripartire per il cantiere fino alle sei di sera, governavo la mucca e pulivo la stalla. Per dieci anni ho lavorato anche come operaio alla Mignini a Petrignano d’Assisi. Il bisogno bussava alla porta e dovevamo tenerlo a bada con ogni sacrificio. Quei pochi soldi al mese erano la nostra salvezza. Solo la domenica mi concedevo qualche volta un’uscita al bar. Non ci siamo mai mossi da Passaggio, se non in due o tre occasioni».

Da oltre ottant’anni, Marzino e Argentina sono saldamente legati alla terra e alla fatica del lavoro contadino.

«Adesso, in stalla, mi aiuta mio figlio Paolo – dice orgoglioso mentre batte sulla piccola incudine il falcetto per rinnovare il filo – ma riesco ancora a cavarmela da solo. Le mucche sono un patrimonio inestimabile; una volta lo erano anche le scrofe che facevano 10, 12 maialini: il contadino ne teneva uno, vendeva i piccoli e vedeva i primi soldi. Così cresceva l’economia rurale».

Le storie di Marzino sembrano uscite da un libro di favole, raccontano una generazione abituata al sacrificio; uomini e donne che vivevano una vita semplice, radicata nella campagna e in un modello rurale che merita di essere preservato.

«Ai giovani di oggi gli auguro tanto bene, ma non amano la vita contadina. Per loro questo lavoro – – commenta con il viso quasi contratto in una maschera di severità – sembra qualcosa di vecchio o desueto. Suscita curiosità, forse interesse, magari anche coinvolgimento, ma per i giovani, è come guardare un vecchio film in bianco e nero. Quando io ero ragazzo, il grano si mieteva a mano, si facevano le gregne e si riportavano a casa con il carro trainato dai bovi, perché non c’erano i trattori.

Una volta depositato sull’aia si batteva e poi la sera ci radunavano tutti presso una famiglia per stare insieme e bere un bicchiere di vino. Durante la trebbiatura del grano o la raccolta delle olive ci si aiutava sempre tutti. Anche in caso di emergenza, le famiglie patriarcali, tutte numerose come la mia (eravamo in dieci: babbo, mamma e otto figli, sei maschi e due femmine, e ora siamo rimasti in tre) erano sempre unite e proteggevano con cura le aree destinate alla coltivazione».

Per le nuove generazioni nate digitali è difficile credere che un tempo, non troppo lontano, la vita dei nostri nonni fosse scandita solo dalla luce del sole. Marzino, per anni, si è alzato prima che l’alba strappasse l’oscurità dal palcoscenico del mondo e ha lavorato fino a sera.

«C’era fratellanza fra i contadini e le chiavi di casa restavano sulla toppa della porta – conclude – e nessuno osava toccare nulla. Adesso, ti ritrovi la gente che occupa casa».

Questa è la storia di Marzino Famiani e Argentina Fioriti, un esempio di vita semplice, dura, ma ricca di dignità e tradizioni, un patrimonio che merita di essere tramandato alle future generazioni.

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